Martedì 5 aprile si è giocata l'andata dei quarti di finale di Champions League tra Inter e Schalke 04, terminato 5-2 per i tedeschi. Per noi da San Siro c'era l'esperto di calcio Frank Riccardi.
San Siro. Sad Siro, direbbero gli inglesi, dopo aver passato una serata come quella nerazzurra di martedì. In ogni caso, mai dimenticare l’etimologia. La parola Siro deriva dai primi commenti sulla costruzione dello stadio. “Lo faremo grande come uno di Roma!”, disse l’architetto. “Seeeee, Roma!!”, rispose un Passante. Nei secoli, l’espressione si è prima accorciata in “Sì Roma”e poi contratta in “Siro”. Questa spiegazione è solitamente censurata per motivazioni politiche. I leghisti la temono non poco. E fanno bene. Gli stessi leghisti sono molto amici di un ministro che propugna il rigore nei conti pubblici. Ma vi pare serio? Allo stadio come al ministero, i dubbi sulla legittimità del rigore sono numerosi. E, visto lo stato di alcuni giocatori in campo, si può ben affermare che l’unico rigore davvero possibile è forse il rigor mortis. E in effetti si gioca a calcio, ma a confrontare le cronache sportive con quelle rosa, si direbbe che molti divi del pallone farebbero meglio a dedicarsi ad Ammazza che mazza. Del resto, l’uomo semplice è anche il più illuminato, e non ci mette molto a bollarli come “divi di ‘stocazzo”. Quel che appunto sono. L’equivalenza parmenidea sull’essere che è si sostanzia nel modo più semplice e chi è convinto dalla filosofia dell’arché può tranquillamente passare avanti con un vabbuò (sua naturale evoluzione).
Ma ciò che conta è il rituale. La vicinanza tra l’azione delle squadre in campo, l’opera architettonica e i sentimenti delle masse popolari accomodate nell’arena chiama in causa, inevitabilmente, la categoria del “nazional-popolare” di gramsciana memoria. Certo, la lotta per un nuovo umanesimo della curva milanese s’infrange contro la volontà teutonica dello Schalke 04, una determinazione schiettamente nitzscheiana a superare il quarto di finale di Champions che porta a chiedersi se non fosse stato preferibile, per il tifoso interista, passare la serata a consumare piuttosto un quarto di bue, in allegra compagnia, dentro una trattoria a Campione d’Italia – nomen omen, foriero già di altre fulgide Memorie, che alcuni peraltro vorrebbero ricacciare nel Sottosuolo, oppressi come sono in dostojeskiano ciclo di delitto e castigo calciopolista.
Notevole, nel rito sansiresco, è l’assimilazione della divinità ad animali della più svariata specie. Si scavalca con ciò anche l’idolatria pre-mosaica, per giungere alla più potente definizione finora osservata del concetto di capro espiatorio descritto nei tomi di Rene Girard. Lo stesso studioso francese è anzi scavalcato, diremmo sia a destra che a sinistra, da San Siro che fa di tutto per dare senso alla definizione d’inconscio collettivo proposta per la prima volta da Jung. C’è bisogno di riallacciarsi agli antenati dell’uomo moderno: niente di più facile, quando in campo c’è Eto’o, il cui ancheggiare energico e primordiale ispira – scoperta dell’ultim’ora e dell’ultimo anello – uomini e donne, scavalcando la definizione dei sessi senza però scavalcare mai, ahilui, lo specchio della porta. Quello ancheggia, Silvia Favasuli zompetta, Oliva passa, il Presidente barcolla ma non molla, al contrario del suo pari grado in Generali, che si dimette. Grande confusione sotto e oltre le luci già cantate da Vecchioni, ritornate ad illuminare un improvvisato, forzato tentativo di ricostruzione d’una urszene freudiana in cui il club dell’Internazionale identifica la reale natura delle scelte di dirigenti e allenatore nella visione dell’atto violento inevitabile, bello per pubblica definizione e punitivo nella realtà dei fatti. La conclusione, fuor di metafora, è proprio quella e nessun’altra: cazzi amari. Eccome.
Da notare infine che non si è mai da soli nel viaggio al cuore di tenebra. La compagnia, però, andrebbe scelta con cura. Milito, miles che fu gloriosus, ogni tanto erutta ma mangia, e mangia tanto: a guardarlo non si fa che esclamare “Che s’è magnato!!!” Altro indiziato dell’onomastica: Maicon. Mai-con, appunto. Sempre senza. Andrebbe meglio, si direbbe.
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